Johannes Dimpflmeier
DESCRIZIONE AZIENDA
Nato a Roma nel 1945 da genitori tedeschi frequenta la Scuola Tedesca di Roma. Fa apprendistato di elettronica in Germania presso la SABA. Alla Folkwangschule di Essen studia Industrial Design. Dal 1987 vive e lavora in Italia, a Tuscania, dove ha il suo studio.
Mostre scelte
- 1987 Galleria della Tartaruga, Roma
- 1989 “Porta Segreta”, Calcata
- 1990 “Radio sehen” Siegen (D)
- 1990 Museo di S. Caterina, L’Aquila
- 1991 “Nervonische Zeiten” Gelsenkirchen (D)
- 1998 “Container“, Centro Cultura Contemporanea, Firenze
- 2000 Rocca dei Papi, Montefiascone
- 2001 “Stradarolo“, Genazzano, Zagarolo
- 2002 “Fabbriken“, Oslo (N)
- 2002 “Galleria Desideri“, Roma
- 2005 Galleria “Quer“, Berna (CH)
- Dal 2004 partecipa alla Mostra Annuale d’arte di Sorano
…SI CONNETTE COME UN’ANTENNA…
Nell’opera di Johannes vi è quello che ancora nel medioevo occidentale persisteva e in Oriente persiste come idea di arte che più che un’idea è un fatto, ovvero un manu-fatto cioè fatto con mano, come strumento, strumento dell’altro strumento ovvero l’uomo.
Egli arriva, a nostro sentire, con disponibilità, a “essere”, ad essere in quel momento, nel momento della realizzazione dell’oggetto senza che l’ingombro della personalità intervenga.
Egli fa posto a qualcos’altro, si lascia attraversare oppure (come piacerebbe più a lui) si connette come antenna a quella che alcuni chiamano ispirazione o fantasia che forse altro non è che questo permettere gentile di essere al servizio. Ma di cosa? Qui le parole cadono mentre cala il sipario del silenzio. Nient’altro.
(Enrico Fontecedro)
…L’ARTE E IL TEATRO…
Nell’”Equilibrista”, vi è il teatro dell’assurdo, una folla di folli “munchiani” incita a perseverare nell’attuale carnevale della manifestazione mentre pochi, due, sulla scena circense tentano qualcos’altro, l’equilibrio e la danza, proprie di una ricerca verso un ordine di esistenza diverso, immagine di un tentativo verso altro in direzione opposta a quel tetro spettacolo di cui siamo ormai vittime partecipi ed esultanti.
(Enrico Fontecedro)
C’è un bambino nel centro di una stanza. È una casa abbandonata. Il bambino ha gli occhi chiusi, i suoi sensi e tutto il suo corpo sono protési all’ascoltare, all’assorbire, all’accogliere suoni, vibrazioni, elettricità. Il bambino adesso apre gli occhi e guarda. Guarda luce, ombre, colori, forme. Il bambino guarda e sente. Lo vuole fare tutti i giorni. Niente lo interessa di più di ascoltare e guardare.
Questo rito-gioco accompagnerà per sempre Johannes Dimpflmeier. Egli farà dell’osservazione e dell’ascolto gli strumenti della sua arte. E non lascerà mai quel bambino.
L’arte è un linguaggio universale degli uomini per gli uomini e l’opera di Johannes Dimpflmeier ci viene proposta come la somma di un eterno racconto, una visione fantastica ed ironica di un mondo che è il “suo” coniugato con una forte conoscenza tecnica unita all’utilizzo di materiali diversi.
È il lavoro di un alchimista che opera la trasformazione e la lavorazione della materia grezza che lentamente prende forma e diventa oggetto,suono, opera. Pietre, ferro, legno, cavi elettrici, vecchi oggetti, un interno arsenale di cose fanno da serra al “germoglio” che nascerà dalle mani di questo artista-artigiano. Lo stesso metodo vale per la composizione dei suoi brani sonori. Acqua, vento, canti di uccelli, temporali sono lavorati e mescolati agli strumenti che lo stesso Dimpflmeier ha progettato e realizzato. Questi suoni diventano linguaggio dell’anima che va a toccare le parti più recondite del nostro essere, le nostre emozioni più profonde e ataviche che sono quelle più vere.
Macchine “vive”, piccole sculture girevoli, quadri, personaggi animati da congegni elettronici ci portano dentro un’universo fantastico e irreale, un mondo che corre sul filo del gioco e del sogno. Osservandole non possiamo non continuare, nella nostra fantasia, il racconto che Johannes Dimpflmeier ha solo incominciato quasi volesse darci la prima frase di una storia in continuo divenire per lasciare il resto a noi spettatori stupiti e incantati. Quasi che tutto questo servisse a mantenere un legame segreto ma necessario con quel mondo dell’infanzia che rimane fonte d’ispirazione e guida. Ritorno all’infanzia quindi, che si traduce in recupero dell’innocenza. Bisogno di recuperare un tempo, “quel tempo”.
Così si spiega il gesto essenziale della costruzione di certe opere, forme quasi elementari che sono dettate da una necessità impellente, irrefrenabile: veder realizzata “quella cosa”.
Quindi non guardiamo troppo in fretta il suo lavoro, non giudichiamo troppo in fretta, poiché ciò che abbiamo di fronte è la celebrazione di quel mondo fantastico e laborioso che dimora in ognuno di noi.
(Giannantonio De Maödè)
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